Giusto la fine del mondo è un testo immenso. Ordinato, simmetrico, eppure vivo, di una vitalità così dinamica da diventare voragine. è un testo sull’amore, sulla famiglia, sulla morte, sul coraggio, sul viaggio, sulla distanza, sul silenzio, sulla potenza della parola. Attraversarlo significa arrendersi ad esso, come ci si arrende alla sofferenza e alla vita stessa. Ci si immerge, per imparare a navigarlo, sapendo che se si arriverà all’altra sponda saremo più sicuri e saldi. C’è poco che non si possa trovare e dire in questo testo. Lo scritto è così chiaro e vero che si svolge da sé nei corpi degli attori, pare di non dover aggiungere altro, né forzare in alcuna direzione
Come ha potuto Lagarce riuscire a essere così limpidamente classico e così sfacciatamente innovativo nella stessa opera? Forse la morte che davvero gli era vicina gli ha dato facoltà nuove e possibilità straordinarie.
Un uomo torna a casa, dalla sua famiglia, per comunicare che presto morirà. Se ne andrà senza averlo detto, ma l’incontro con la madre, la sorella, il fratello e la cognata, sarà per tutti l’occasione per rivelarsi. Così tra ricordi sbiaditi, speranze deluse e dinamiche impietose, entriamo nella verità di questa famiglia, che è la nostra famiglia, che è tutte le famiglie. Luogo di sicurezza, ma anche di rancori, di rimpianti, di aspettative, di gelosie.
Qui c’è tutto e il contrario di tutto. Giusto la fine del mondo non è un testo, è un luogo dove accade ogni
cosa. Un oceano infinito di parole che i protagonisti, con echi beckettiani, ma con una vis tragica che sconvolge, riversano l’uno sull’altro, eppure si avverte solo il silenzio
e l’impossibilità di dirsi davvero qualunque verità. Louis, il protagonista, è in realtà una figura defilata, quasi assente, potrebbe non esserci, forse è già morto. Nulla accade, eppure alla fine nulla è più come prima, tutto è mutato, per sempre.
Così ci ritroviamo là, giusto alla fine del mondo, alla fine della vita, alla fine di questa menzogna. La catarsi c’è, come in ogni tragedia che si rispetti, e noi la viviamo. Ma non è alla conclusione, come vuole Aristotele, bensì durante, nelle parole violente, nella forza che i protagonisti esercitano contro se stessi.